“Descrivi un sogno che ti ha particolarmente colpito”. Quando, in prima media, la professoressa di Italiano dettò il tema del compito in classe, non potevo sapere che quello sarebbe stato l’incipit di un sogno lungo, che mi avrebbe accompagnato per sempre. Scrivere. Inventai, seduta stante, la storia di un ragazzino, mio alias, che mentre volava verso Washington immaginava di intervistare Robert McNamara. Chi era? Il segretario alla Difesa Usa di Kennedy e Johnson, stratega dell’intervento americano in Vietnam. Ma questo, a undici anni, non potevo saperlo. Avevo sentito fare il suo nome al telegiornale della sera e mi era rimasto impresso il suo nome, insieme alle immagini di marines e blindati che si imbarcavano per Saigon. Presi 9 e da allora decisi che, sì, avrei fatto il narratore, di storie, di personaggi, di sogni. Magari il giornalista, che sembrava una affascinante missione più che un lavoro. D’altronde, odiando la matematica e le materie scientifiche in generale, non avevo scelta. Così, con diverse lacune, riuscii a valicare ansimante la maturità classica, inseguito dall’immagine monitoria dell’Alfieri legato alla sedia per studiare con profitto. Il primo articolo da collaboratore di un settimanale del Veneto, lo battei a 21 anni sull’Olivetti Lettera 22 di mio padre, la sera del vicino terremoto in Friuli, il 6 maggio 1976. La concentrazione sul resoconto di una vertenza sindacale dei tessili era tale che quasi non me ne accorsi. Serata indimenticabile, non certo per la qualità dello scritto. Faticoso e fatidico. “Per riuscire a fare il giornalista, dovrai terremotare la tua vita”, mi disse la stessa voce che mi aveva suggerito il tema su McNamara. E così fu. Passarono quindici anni prima che, dopo una laurea in Scienze politiche, un trasloco causa matrimonio in Lombardia, otto anni di lavoro fra associazioni di categoria e uffici stampa, entrassi in redazione come giornalista professionista al “Giornale di Brescia” e lì dessi forma al mai sopito sogno infantile. Lì potei liberare la mia passione per la politica interna e estera, con un’attenzione spontanea, irresistibile verso i Balcani. Erano gli anni della dissoluzione sanguinosa dell’ex Jugoslavia, ma anche quelli della riscoperta di una pagina di Storia stracciata o dimenticata: l’odissea degli italiani fuggiti in massa dal trionfante comunismo titino del dopoguerra. Dai miei viaggi in Istria, in Croazia, in Serbia, a Pola, Fiume, Belgrado, Sarajevo, Srebrenica, dagli incontri, le esperienze, le letture, da tutto questo bagaglio culturale e sentimentale nacquero i due libri che ho scritto. “ISTRIANIeri. Storie di esilio” (Liberedizioni 2006). E “Le fiamme dei Balcani. Guerra e amore dentro l’anima di un mondo ‘ex’” (Oltre edizioni 2021). Questo secondo, portato a termine dopo il pensionamento anticipato dal “Giornale di Brescia”, rappresenta il mio romanzo d’esordio. Con esso, il bambino in volo verso l’America si è definitivamente svegliato e prova a realizzare fino in fondo se stesso. Non avrebbe, però, sopportato una così infinita attesa, se non fosse stato aiutato dal combinato disposto delle sue molteplici passioni: la musica rock, come cantante e chitarrista della sua band, i “200 km”, facendo il pendolare fra Brescia e Treviso; il running metodico, medicina naturale del corpo e della mente; i viaggi in moto con la sua compagna (tanti i progetti ancora in corso). Sempre con la penna, il taccuino e un buon libro nella borsa.
SOLO TRE DOMANDE
- Mi descrivo con solo tre aggettivi
- Creativo.
- Carsico (in pratica: incostante e senza radici. Scompaio e ricompaio, irregolarmente, proprio come un fiume sotterraneo che riemerge qua e là).
- Egosolidale (mi occupo prevalentemente di me stesso, convinto di fare del bene anche al prossimo).
- Il solo evento che mi ha cambiato la vita
- Fare il giornalista in orario notturno.
- Solo un link socialmente utile
- https://www.youtube.com/, per ascoltare e vedere tanta buona musica, documentari storici e qualche film d’annata.
solo qualche immagine