Scrivere mi piace, l’ho sempre fatto fin da ragazzina. Avevo quaderni e diari e se non li avevo appuntavo dove capitava, pezzi di carta o perfino al margine dei libri, riempivo tutte le pagine vuote, quelle all’inizio e alla fine del volume, se non avevo una matita lo facevo a penna, destando lo scalpore di coloro che ritenevano sacro preservare l’integrità di un bel libro, ma per me era più importante appuntare quell’intuizione fugace, quel fremito di vita che avevo sentito in quell’attimo, illuminava il mio presente più di quel libro che avevo tra le mani, mi faceva sentire appagata del mio sentire. Fui molto fiera quando a quindici anni vinsi il secondo premio di un piccolo concorso di poesia. La scrittura mi definiva, il suono delle parole mi avvinceva.Ho continuato a scrivere anche per i viali della città Universitaria de La Sapienza, tra una lezione e l’altra. Studiavo Scienze Politiche, ma mi rifugiavo sulle scalette della Facoltà di Geologia, lì c’era più sole, potevo sognare meglio. Lontano dal brusio del lungo corridoio di Scienze Politiche. Evidentemente chi studiava materie scientifiche era più silenzioso e solitario, mentre agli Scienziati politici piaceva conversare, confrontarsi, eravamo costantemente in relazione. Quando entrai nell’androne della Facoltà la prima cosa che mi colpì fu la targa commemorativa a Vittorio Bachelet, ucciso su quelle scale nel 1980, in coda ai drammatici anni ‘70. La storia aveva un grande fascino su di me, ma portava anche la constante sensazione di essere sempre in ritardo. Pareva che noi, studenti dei primi anni 2000, rispetto ai nostri colleghi del passato eravamo sempre in ritardo, rispetto a quei focosi giovani contestatori del ‘68, in ritardo sul movimento della Pantera. Rispetto ai nostri colleghi del passato eravamo sempre in difetto di qualcosa, mai abbastanza speciali, in ritardo per quei luoghi e quei momenti che una volta erano stati grandi scenari. Allora decisi di giocare con il tempo, quello dello scatto che insieme all’apertura del diaframma immortala un’immagine, per non rischiare di perderla. Anche scrivere con la luce per me era un buono strumento espressivo, quasi l’unica volta nella vita che ho sentito di padroneggiare una tecnica. Con la borsa piena di obiettivi, filtri e esposimetro giravo e vedevo la poesia in alcune immagini. Scattavo con pellicola in bianco e nero e in camera oscura per ore cercavo il contrasto giusto, studiando i particolari di un’immagine, trovandone il punto forza. La pellicola a colori rendeva il suo massimo con le luci del nordAfrica, in Marocco in mezzo alla gente, oppure nell’isolato fortino portoghese di El Jedida, durante il Ramadan.Poi per un po’ non ho più scritto, per un lungo periodo mi sono occupata dei libri degli altri, lavorando come editore. I mestieri del libro sono tanti e con un ruolo o un altro quello che desideravo era comunque esserne parte.Ho ripreso a scrivere qualche anno fa, quando morì mia madre, quasi come se fosse una terapia al dolore dell’assenza, per meravigliarmi di nuovo che come per magia quello che non è più con le parole torna a vivere. Lì la scrittura mi ha salvato e mi sono improvvisamente ricordata che se tanti anni prima avevo scelto di scrivere come il miglior strumento che avevo per creare qualcosa forse un significato ce l’aveva.
SOLO TRE DOMANDE
- Mi descrivo con solo tre aggettivi
- Solare.
- Idealista.
- Ostinata.
- Il solo evento che mi ha cambiato la vita
- La nascita della mia prima figlia.
- Solo un link socialmente utile