Da grande volevo fare il giornalista, come mio nonno Luigi, che non ho mai conosciuto perché morto nel 1948. Eppure qualcosa mi deve aver trasmesso se già da bambino tormentavo parenti e amici con interviste impossibili, armato di penna e quaderno. Alla fine ci sono riuscito, sono diventato giornalista, ormai da 34 anni. Ho iniziato come tanti altri, da abusivo, componendo i testi dei necrologi. Un giorno scrissi che un tale "viaggiava sulle strade del Signore". Non sapevo fosse morto in un incidente stradale. Accadde il putiferio in redazione. Devo dire però che, professionalmente, mi sono tolto parecchie soddisfazioni. A 22 anni ho seguito da freelance il conflitto nei Balcani, poi mi sono occupato a tempo pieno di sport, raccontando 7 edizioni della Coppa del Mondo, 4 Campionati d'Europa, e 5 finali di Champions League. L'approccio con la politica estera è accaduto quasi per caso: andai al Cairo a documentare le proteste di piazza Tahrir nel bel mezzo della Primavera Araba. Volevo capire per quali ragioni erano stati gli ultras di calcio a scendere per primi nelle strade a manifestare contro Mubarak. Da quel momento gli esteri sono diventati la mia occupazione professionale privilegiata. Ho raccontato, e racconto, gli eventi di mezzo mondo per Il Foglio, Il Secolo XIX, e negli ultimi 13 anni per Il Giornale. Sono passato dalla caduta di Gheddafi, alla cacciata di Ben Ali in Tunisia, dal dramma dell'Ebola in Guinea alle mattanze dei Boko Haram in Nigeria, dalla carneficina in Siria, fino ad arrivare alle rivolte di piazza in Senegal e Costa d'Avorio. Durante gli attentati jihadisti in Europa ho girato come una trottola tra Parigi, Bruxelles, Nizza, Berlino e Barcellona, per regalare ai miei lettori cronaca e sensazioni degli attentati al Bataclan, alla Promenade des Anglais, piuttosto che agli aeroporti di Bruxelles o di Istanbul. Ho visto morti, feriti, ho pianto per scene strazianti, ma ho anche gioito per gesti di rara e meravigliosa umanità. Nell'ultimo anno e mezzo racconto il conflitto in Ucraina, una delle tragedie più insensate del secondo dopo-guerra. Lo sport è il primo amore, e spesso ho utilizzato proprio il pallone come filo conduttore per raccontare i drammi politici e sociali ai quali ho assistito. Nel 2010, con il libro "Il tackle nel Deserto", ho vinto la Selezione del Bancarella Sport, conquistando la sestina di Pontremoli. Il calcio era solo un pretesto per raccontare le terre del Medioriente. Ho voluto cimentarmi in quest'ultimo anno con "Li chiamano anche Portieri", edito da Mursia, un libro che ha preso forma grazie al sostegno prezioso della mia agente Marcella Brianda. Anche in questo caso gli atleti mi sono serviti per aprire varchi nella storia degli ultimi cento anni. Cosa farò da grande? Spero ancora questo mestiere, che è per me una droga meravigliosa. Non so se correrò ancora in giro per il mondo, forse è arrivato il momento di fermarsi e riflettere. La compagnia SAS (Salutame A Soreta, è una lunga storia) è sopravvissuta a pallottole e attentati, meglio non sfidare troppo la sorte.
SOLO TRE DOMANDE
- Mi descrivo con solo tre aggettivi
- Testardo.
- Sfacciato.
- Generoso.
- Il solo evento che mi ha cambiato la vita
- La morte di Ilaria Alpi, da quel momento il giornalismo è entrato ancora di più nella mia pelle.
- Solo un link socialmente utile
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https://www.associazionelucaco
scioni.it Amare vuol dire poter morire con dignità
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SOLO QUALCHE IMMAGINE