In guerra, distribuito da Academy Two e diretto dal regista francese Stéphane Brizé, è interpretato dall'immenso Vincent Lindon, attore feticcio per Brizé, è infatti la terza volta che collaborano per raccontare il mondo di oggi nelle sue contraddizioni e nella sua ferocia. Dopo aver vinto la Palma d'Oro a Cannes per l'interpretazione del cinquantenne messo a guardia di un supermercato ne "La legge del mercato", qui si cala nei panni di un eroe epico in questo che è un film politico nel senso etimologico del termine, ovvero connesso alle vicende pubbliche della vita di una cittadina. Il racconto si sviluppa attorno alla descrizione di un crudele meccanismo economico che vede coinvolti gli azionisti della Perrin Industries e i suoi 1100 dipendenti: nonostante i sacrifici finanziari dei dipendenti e l'aumento dei profitti dell'ultimo anno, i dirigenti della Perrin decidono, improvvisamente e senza tenere in considerazione gli accordi precedenti, di chiudere la fabbrica e licenziare tutti i lavoratori. Ignorando i fattori umani, scatenando una rabbia alimentata dal senso di umiliazione e disperazione accumulato nelle lunghe settimane di lotta dei lavoratori sottoposti alla pressione della negoziazione di un accordo per un licenziamento collettivo. Una rabbia incarnata in particolare da un delegato sindacale (Lindon) che mette in campo, senza alcuna retorica politica, sacrificando ogni energia, proprio la necessità di farsi portavoce del dolore e dell'indignazione che sono tanto suoi quanto degli altri lavoratori. Il film contrappone i due punti di vista: la dimensione umana contro gli interessi economici, analizzando il sistema oggettivamente coerente dal punto di vista degli azionisti di una società, ma altrettanto oggettivamente incoerente dal punto di vista degli uomini che ci lavoravano. Brizé, senza mai soffocare lo spettatore con tonnellate di sottigliezze giuridiche e soprattutto evitando di circoscrivere la situazione alla Francia di oggi, ha trovato il modo di rendere comprensibili questioni a volte molto tecniche, definendo il punto di partenza del conflitto e il suo punto di arrivo facendo corrispondere ogni azione di lotta dei lavoratori ad un momento di speranza o di sconforto, senza mai mettere in discussione un principio fondamentale: i nostri lavoratori vogliono difendere il posto di lavoro. Ma c'è una cosa che emerge in modo chiaro da tutto quello che il film ci mostra ed è che le forze in campo non sono equilibrate, perché se una legislazione permette ad un'azienda che produce dei profitti di chiudere, il rapporto di forza è di fatto compromesso fin dall'inizio. Lo si nota in ogni singola tappa del conflitto e alla fine la fragilità economica dei lavoratori ed i mezzi legislativi a loro disposizione non permettono loro di impedire la chiusura dello stabilimento. Un film molto realistico che riesce a mostrare la violenza psicologica condannando quella fisica, e che da voce alla rabbia nei confronti dell'ingiustizia. Un film di guerra, una guerra moderna, dove non si combatte con le armi e non si uccide fisicamente, ma dove brutalmente si privano le persone della dignità che il lavoro concede loro. Una guerra combattuta fino alle estreme conseguenze e mai inutile, perché come recita la frase all'inizio della pellicola: "chi combatte può perdere, ma chi non combatte ha già perso".
SOLO TRE AGGETTIVI
- Epico
- Combattivo
- Realistico